La fotografia vista con gli occhi del cinema

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Percorsi paralleli della fotografia visti dal cinema

Quando si parla di fotografia vista dal cinema, la prima cosa da dire è che il cinema esiste perché prima di esso esisteva la fotografia, questo è un fatto indiscutibile. Che cinema e fotografia abbiano seguito percorsi indipendenti, ma sempre paralleli, è un altro dato di fatto. Il cinema non sarebbe comprensibile senza il ruolo che la fotografia svolge nell’intero processo di produzione cinematografica. Infatti, praticamente tutto l’impatto visivo che le sue immagini producono dipende dal lavoro di uno dei tecnici più importanti di ogni film: il direttore della fotografia.

È incaricato di riprodurre il modo in cui ogni scena viene mostrata, con la sua inquadratura, la sua illuminazione e la sua atmosfera. Il processo tecnico che sta alla base dell’aspetto visivo di ogni fotogramma cinematografico non è molto diverso da quello di qualsiasi ripresa fotografica, sia essa con luce ambientale, artificiale o una combinazione di entrambe.

Nemmeno la post-produzione dell’immagine è diversa in ogni campo. In passato i processi erano chimici, sia per il negativo a colori, il bianco e nero o le diapositive nel caso della fotografia, sia per la celluloide, il positivo della pellicola cinematografica. Oggi, quasi tutto il processo di sviluppo e post-produzione, sia nel cinema che nella fotografia, è realizzato con tecniche digitali che, se non sono sorelle, sono almeno cugine.

Che il cinema esista perché prima di esso esisteva la fotografia è indiscutibile. Che cinema e fotografia abbiano seguito percorsi indipendenti, ma sempre paralleli, è un altro dato di fatto. Il cinema non potrebbe essere compreso senza il ruolo che la fotografia svolge nell’intero processo di realizzazione.

Il linguaggio del cinema

D’altra parte, anche la fotografia si è nutrita, e continua a nutrirsi oggi, del linguaggio cinematografico. Non solo nel comporre le proprie scenografie, ma anche nel contestualizzare la propria narrazione visiva. Ne sono un esempio i famosi storyteller di Duane Michals. Piccole storie, in molti casi con la profondità e la complessità di un racconto cinematografico, raccontate da una sequenza composta da diversi scatti fotografici.

Un esempio molto più evidente è il caso del fotografo Gregory Crewdson, le cui elaborate immagini richiedono l’attrezzatura tecnica e umana di un grande set cinematografico.

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Copertina del catalogo fotografico Storyteller di Duane Michals

Tuttavia, non è facile trovare film in cui, al di là della risorsa o dell’aneddoto, si parli apertamente di fotografia o si trascenda in modo chiaro e incisivo nella trama del film. Naturalmente sto parlando della fotografia vista dal cinema all’interno della fiction, perché nel campo del documentario possiamo trovare opere interessanti come: La valigia messicana (Trisha Ziff, 2011) o Il sale della terra (Wim Wenders, 2014).

Modelli

Ci sono anche alcune curiosità che si collocano a cavallo tra il documentario e la pubblicità, come Models (1991), quella particolare ode al mondo delle top model degli anni ’90 del fotografo Peter Lindbergh che, vista oggi a distanza di quasi 30 anni, appare oltremodo banale se non fosse per lo squisito bianco e nero delle sue immagini in movimento, più vicine allo stile fotografico dello stesso Lindbergh che ai codici di un documentario.

Modelli (Peter Lindbergh, 1991)

L’iconografia della fotografia vista dal cinema

Non ignorerò neppure il fatto che l’iconografia della fotografia è stata presente in innumerevoli scene del cinema nel corso della sua esistenza. Iconica è l’immagine di James Stewart con una macchina fotografica e un enorme teleobiettivo che spia i suoi vicini in La finestra sul cortile (Alfred Hitchcock 1954). Altrettanto iconico è il ballo tra Fred Astaire e Audrey Hepburn, immerso nella luce rossa di un laboratorio fotografico “all’antica” in Funny Face (Stanley Donen 1957).

E naturalmente, all’interno della fotografia vista dal cinema, ci sono anche personaggi basati su fotografi, come quello interpretato da Julia Roberts in Closer (Mike Nichols 2004), o Buscapé, il ragazzo che diventa fotoreporter osservando la dura realtà della favela in cui vive a Rio de Janeiro nel sorprendente e adrenalinico City of God (Fernando Meirelles, 2002).

E senza dubbio uno dei miei preferiti, il fotografo che immortala i ponti coperti dell’Iowa (USA) per il National Geographic, interpretato da Clint Eastwood in quel grande film che era, ed è, I ponti di Madison (Clint Eastwood, 1995). E potremmo andare avanti così per molto tempo…

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Fotogramma da La finestra sul cortile (Alfred Hitchcock, 1954)

La fotografia vista attraverso il cinema: un meccanismo di ricordo

Il cinema non è stato esente dal mostrare la fotografia come un efficace meccanismo di ricordo. È forse l’attribuzione più diffusa all’atto di fotografare nell’uso domestico quasi dalle sue origini, a parte le discipline artistiche, giornalistiche o scientifiche…

Fotografiamo per ricordare. Anche se ora, nell’era digitale dell’immagine, la fotografia è stata sottomessa ai capricci di un consumo rapido che dura finché un’immagine rimane online in una storia o nei feed di Facebook o Instagram. Finché non viene seppellita da tutto ciò che arriva “in coda”. E così è nel caso delle foto scelte, perché la stragrande maggioranza non va oltre il file memorizzato su uno smartphone o sul disco rigido di un computer.

Nemmeno il cinema è stato esente dal mostrare la fotografia come un efficace meccanismo di ricordo. È forse l’attribuzione più diffusa all’atto di fotografare nell’uso domestico quasi fin dalle sue origini, a parte le discipline artistiche, giornalistiche o scientifiche… Fotografiamo per ricordare. Anche se ora, nell’era digitale dell’immagine, la fotografia è stata sottomessa ai capricci di un consumo rapido che dura finché un’immagine rimane online in una stories o nei feed di Facebook o Instagram, fino a quando non viene seppellita da tutto ciò che arriva “in coda”.

La fotografia vista dal cinema negli anni 2000

Memento

Sulla stessa scia, il 2000 ha visto l’uscita di Memento. Un curioso esperimento narrativo con cui il regista britannico Christopher Nolan si è messo in luce prima di diventare, con il permesso del canadese Denis Villeneuve, il creatore di alcuni dei migliori blockbuster per menti inquiete del XXI secolo.

Il suo protagonista, Leonard (Guy Pearce), soffre di una strana patologia nota come amnesia anterograda, che gli impedisce di immagazzinare i ricordi recenti nella memoria, perdendoli nel giro di pochi minuti.

Il nostro protagonista è impegnato in un’indagine personale per scoprire i colpevoli dell’omicidio della moglie, un trauma che provoca il suo stato mentale, presentato in diverse linee narrative e temporali complesse da incastrare come la metodologia di Leonard per mettere insieme i pezzi del suo puzzle sfruttando i brevi intervalli di tempo per accedere alla sua memoria, prima che questa si resetti e i suoi ricordi svaniscano.

Leonard, consapevole del suo problema, escogita un sistema per ricordare, che consiste nell’approfittare di questi momenti di lucidità per scattare fotografie Polaroid di ciò che lo circonda e delle persone che incontra, scrivendo poi sul retro delle fotografie frasi che lo aiutino a ricordare il motivo di ogni scatto.

La sua paranoia di ricordare arriva a tal punto che Leonard non esita a tatuarsi tutto il corpo con molte delle frasi che annota man mano che la sua indagine procede, con l’intenzione che queste servano da indizi che lo portino a recuperare ogni parte del puzzle che sta cercando di ricomporre.

Scena dei titoli di testa di Memento (Christopher Nolan, 2000)

Blade Runner

In Blade Runner (Ridley Scott 1982), un film feticcio per me, la fotografia ha un motivo speciale per far parte della trama. Anche se, ancora una volta, non è al centro dell’attenzione. Ma senza di essa, e senza il modo accattivante di mostrare l’importanza delle immagini per i suoi protagonisti, non sarebbe stato possibile spiegare le loro motivazioni nella loro odissea per scoprire se sono davvero umani o semplici prodotti artificiali.

In Blade Runner, i replicanti, androidi simili a esseri umani creati dalla Tyrell Corporation, si aggrappano ai loro ricordi, anche se questi non sono altro che il risultato di impianti nel loro cervello, per giustificare la loro esistenza e il loro diritto di essere accettati come esseri viventi e pienamente emotivi. Le fotografie che possiedono, alcune scattate da loro stessi, ma molte altre manipolate o semplicemente prese dalla vita di altre persone, diventano una prova inconfutabile di ciò che hanno vissuto, o che credono di aver vissuto.

Ancora una volta, la fotografia vista dal cinema come meccanismo di accesso alla memoria, ai ricordi, alla verifica della nostra esistenza.

In Blade Runner si parla di un suggestivo artefatto futuristico di analisi fotografica che era la macchina Esper, di cui ho parlato ampiamente in un precedente articolo: La fotografia ai tempi dei #fotografi@ (seconda parte).

La fotografia vista attraverso gli occhi del cinema in modo più diretto

Anche il cinema si è avvicinato alla fotografia in modo più diretto e impegnato, e la fotografia è passata dall’essere una risorsa secondaria a diventare il filo conduttore della trama. Non è che i film siano stati realizzati per parlare esclusivamente di fotografia, ma ci sono esempi, alcuni dei quali estremamente interessanti, in cui la fotografia acquisisce una dimensione determinante. Non solo in termini di presenza per tutta la durata del film, ma soprattutto come ingranaggio fondamentale da cui dipende la trama principale, in cui vengono messi in discussione e sollevati aspetti intrinseci all’atto fotografico e alle sue possibili conseguenze, esplorati da un punto di vista culturale, sociale, filosofico, ecc.

Purtroppo non sono molti, ma tra questi ce ne sono alcuni che per me hanno un valore speciale al di là degli stili e della qualità dell’insieme. Sono quelli che hanno lasciato un segno nel mio processo per comprendere meglio la dimensione della fotografia come mezzo espressivo e la sua stimolante capacità di portarci oltre ciò che l’occhio vede.

Prima di continuare, devo avvertirvi che i contenuti che seguono contengono spoiler, se non avete visto i film, ma è impossibile evitare gli spoiler quando si cerca di fare un’analisi per la quale alcune scene chiave devono essere sventrate. Quindi, da qui in poi, la scelta della strada da seguire dipende da voi.

Blow-Up. Scoprire ciò che l’occhio non vede

Una buona manciata di anni fa, quando ero solo un giovane fotografo alle prime armi e il mio atteggiamento nei confronti di tutto ciò che aveva a che fare con la fotografia, il cinema o l’arte in generale era quello di una spugna che assorbe acqua senza mai raggiungere il limite (per fortuna, ho ancora tanta sete…). Andavo a letto tardi e mi piaceva persino stare sveglio fino a tardi mentre sviluppavo le foto, leggevo o guardavo i miei programmi preferiti in TV, alcuni dei quali erano in onda o andavano avanti fino alle prime ore del mattino.

Era la metà degli anni ’90 e le mie attività notturne feriali comprendevano l’attesa della trasmissione di Metrópolis su La 2, che a seconda della programmazione precedente poteva avvenire in qualsiasi momento dopo la mezzanotte, oppure la visione integrale del film e la successiva discussione su ¡Qué grande es el cine! e poi collegarsi con il Cine Club di TVE, la cui sigla e sigla preliminare alla trasmissione del film fa ormai parte dell’immaginario di molti di noi che erano nottambuli in quell’epoca pre-internet, quando i contenuti culturali in televisione e alla radio erano relegati a un momento in cui la stragrande maggioranza dei mortali stava già premendo le orecchie sul cuscino.

Testata del programma Cine Club di TVE, trasmesso tra il 1990 e il 2010.

Programmi televisivi in seconda serata

Tra tutti i film che ho scoperto durante quelle proiezioni televisive notturne, ce ne sono due le cui sensazioni durante la visione sono rimaste impresse nella mia memoria. Senza dubbio perché, pur essendo considerati dei classici, avevano qualcosa di enigmatico che li rendeva totalmente diversi da tutto ciò che avevo visto fino ad allora. E che, suppongo a causa di una predisposizione all’interesse per le cose strane, mi ha colpito nel profondo.

Tra questi, Il silenzio di un uomo (1967) di Jean-Pierre Melville, capolavoro imprescindibile di quel noir francese che ha rivoluzionato i codici di un genere così genuinamente americano d’Europa e, soprattutto, Blow-Up (1966). Il film di Michelangelo Antonioni che ogni amante della fotografia dovrebbe vedere un paio di volte all’anno per non perdere l’orientamento in mezzo a tanta artificiosità in quest’era digitale che ci confonde…

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Poster di Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966)

Blow-Up

Vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1966, Blow Up si apre nello studio londinese di Thomas. Un famoso e ambito fotografo di moda, un po’ prepotente e strafottente e un po’ misogino (è il caso di dirlo), brillantemente interpretato da un giovanissimo David Hemmings, che ottenne il ruolo di ripiego, dopo che lo stesso Sean Connery lo rifiutò per non aver capito “niente” di quello che Antonioni intendeva raccontare nel film.

Dopo una visita a un negozio di antiquariato, Thomas prende la sua macchina fotografica e si aggira in un parco verdeggiante lì vicino, Maryon Park, alla periferia di Londra. Per le riprese, i sentieri del parco sono stati dipinti di grigio scuro e alcune aree erbose sono state pigmentate per far risaltare il colore verde.

In questa scena fantasticamente girata, accompagnata solo dall’enigmatico suono del vento tra gli alberi, Thomas sta scattando foto con la sua Nikon F mentre cammina per la zona, finché, a un certo punto, nota l’amoreggiare di una coppia solitaria e decide di fotografarla, facendo diversi scatti di nascosto.

All’improvviso, la ragazza, Jane (Vanessa Redgrave), si accorge della sua presenza e lo avvicina, molto turbata, chiedendogli di consegnare immediatamente le fotografie. Thomas riesce ad allontanarsi da lei, che scappa mentre lui la fotografa in fuga. Ma quale sarà la sua sorpresa quando lei, dopo aver scoperto dove abita, si presenterà ore dopo nel suo studio con l’intenzione di ottenere le immagini, anche se per farlo dovrà sottostare ai giochi erotici e alle imposizioni del fotografo.

Un risultato inaspettato

Alla fine, Thomas prende un rullino a caso dal suo laboratorio e le fa credere che si tratti delle foto scattate nel parco, dopodiché lei sembra acquistare fiducia e diventare più accondiscendente e partecipe ai suoi desideri. Ma tutto cambia bruscamente quando Jane si accorge dell’ora e decide di andarsene in fretta.

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David Hemmings e Vanessa Redgrave nella scena del parco da Blow-Up

Thomas, motivato dalla stranezza di tutto ciò che è accaduto, si reca in laboratorio e inizia a sviluppare e stampare le fotografie scattate nel parco. La sequenza dell’intero processo è francamente magistrale e non si discosta molto dalla suspense crescente che Hitchcock creava nel suo particolare processo narrativo. Thomas, che in un certo senso è consapevole che c’è qualcosa di sospetto, fa grandi copie delle fotografie e le appende in giro per lo studio, sotto forma di sequenza fotografica, esaminandole attentamente alla ricerca di qualcosa che, all’inizio, non riesce a capire.

offuscato dalla scoperta di qualcosa che non riesce a vedere

Ossessionato dall’idea di scoprire che cosa non vede nelle immagini, decide di ingrandire aree specifiche di ogni fotografia, dopodiché si accorge che in uno degli scatti in cui Jane appare abbracciata al suo presunto amante, guarda con una certa gravità nell’espressione verso una parte frondosa del parco chiusa da una recinzione. Dopo aver ingrandito l’area più volte, Thomas scopre finalmente, nonostante la mancanza di nitidezza e l’enorme grana della pellicola tipica dell’ingrandimento di una parte così specifica dell’immagine, prima un volto nel sottobosco e, infine, la sagoma diffusa e deformata di una mano che brandisce una pistola.

Scena Blow-Up

Ma l’incursione di Thomas tra le immagini non finisce qui, perché, desideroso di andare oltre, guarda le fotografie scattate durante la fuga di Jane attraverso il parco e qualcos’altro sembra catturare la sua attenzione. Dopo ulteriori ingrandimenti, e persino fotografie delle stesse fotografie, scopre quello che è senza dubbio, nonostante la mancanza di definizione, un corpo umano disteso a terra. Decide quindi di tornare nella zona in cui si sono svolti i fatti, ora di notte, e finalmente il mistero viene svelato. Nel sottobosco, il corpo senza vita dell’uomo che aveva giocato con Jane nel parco quella mattina giace ancora a terra.

La fotografia può catturare ciò che l’occhio non vede?

Questo è senza dubbio ciò che propone Blow-Up, se applichiamo la logica secondo cui un’immagine fotografica contiene molte più informazioni di quelle che hanno catturato l’interesse che ci porta a fotografare qualcosa di specifico. Thomas fruga meticolosamente nelle viscere dell’immagine stessa fino a scoprire ciò che il suo occhio non ha visto. Dietro una scena apparentemente banale di amanti in un parco c’era un’intera storia parallela di cui Thomas non era a conoscenza e che, forse, sarebbe rimasta sconosciuta se non fosse stato per il suo sospetto e la sua convinzione che in quelle fotografie si nascondesse qualcosa di più.

La fotografia può catturare ciò che l’occhio non vede? Senza dubbio questo è ciò che propone Blow-Up, se applichiamo la logica secondo cui un’immagine fotografica contiene molte più informazioni di quelle che hanno catturato l’interesse che ci porta a fotografare qualcosa di specifico. Thomas fruga meticolosamente nelle viscere dell’immagine stessa fino a scoprire ciò che il suo occhio non ha visto.

Forse la vita non è che un sogno

Ma Antonioni, non contento di questa lezione sulla percezione della realtà, fa un ulteriore passo avanti nella scena finale, quando Thomas, dopo una notte passata a vagare per Londra, cerca di trovare una via d’uscita da quella scoperta, che finisce chiaramente per essere una parabola della via d’uscita di cui lui stesso ha sicuramente bisogno nella sua vita. Decide di tornare al parco con la sua macchina fotografica e scopre che il cadavere è già scomparso. Sconfortato e confuso, si avvicina a un gruppo di giovani con i volti dipinti come mimi, che fingono di giocare a tennis in un campo recintato del parco. Uno di loro finge di lanciare una pallina finta oltre la recinzione, dopodiché fa cenno a Thomas di recarsi sul posto e restituirla. Thomas si dirige verso un punto preciso dell’erba, raccoglie la palla immaginaria e la rilancia sul campo… L’inquadratura finale, con Thomas che guarda attraverso i presunti movimenti della partita fino a quando non abbassa lo sguardo a terra, mentre la sua espressione facciale viene drammatizzata, è una porta aperta al dubbio… Forse la vita non è altro che un sogno…

Blow-Up è disponibile su Google Play o sulla piattaforma Qubit.tv.

Sotto tiro. Osservare o ingaggiare

Molti di voi ricorderanno il recente caso della foto del bambino Aylan Kurdi, trovato annegato su una spiaggia turca nel 2015 e diventato un simbolo internazionale della crisi umanitaria in Siria e del dramma dell’immigrazione.

Non è la prima volta che una singola fotografia altera il corso della storia, anche se temporaneamente. Ci sono esempi indiscutibili come la foto della Napalm Girl (Kim Phuc) scattata da Nick Ut nel 1972 o l’esecuzione in strada di un attivista da parte di un poliziotto locale di Saigon, catturata da Eddie Adams nel 1968.

Non è la prima volta che una singola fotografia altera il corso della storia, anche se temporaneamente. Ci sono esempi indiscutibili come la foto della Napalm Girl (Kim Phuc) scattata da Nick Ut nel 1972 o l’esecuzione in strada di un attivista da parte di un poliziotto locale di Saigon, catturata da Eddie Adams nel 1968.

Il fotografo della stampa

Più di una volta al cinema abbiamo visto un personaggio interpretare il ruolo di un fotografo della stampa. Ma ci sono alcuni film che non si sono limitati ad avvicinarsi a questa professione, ma hanno voluto indagare il ruolo chiave che alcune fotografie hanno avuto nel corso di alcuni degli eventi più decisivi della storia.

È il caso del fantastico Flags of Our Fathers (Clint Eastwood 2006), basato sull’iconica fotografia dei soldati americani che piantano la bandiera statunitense sul Monte Subirachi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. O il più debole The Bang Bang Club (Steven Silver 2010), che si avvicina alla figura del fotografo Kevin Carter, che vinse il Premio Pulitzer con quell’immagine durissima e controversa del bambino sudanese affamato che giace a faccia in giù mentre un avvoltoio appare eretto, dietro di lui, a pochi metri di distanza. Una fotografia che ha segnato il punto più alto della carriera di Carter e che potrebbe anche essere stata la causa scatenante della crisi personale che lo portò al suicidio un anno dopo, a soli 33 anni.

Ma c’è un film che si avvicina, come pochi altri, al mondo del giornalismo, e in particolare del giornalismo fotografico. E pur essendo una fiction basata su eventi reali, approfondisce brillantemente il ruolo della fotografia nell’influenzare e provocare cambiamenti nello sviluppo di alcuni eventi storici. E osa persino mettere in discussione aspetti molto dibattuti negli ultimi anni sul ruolo del fotografo della stampa, in particolare del corrispondente di guerra, come semplice osservatore di ciò che accade intorno a lui o schierandosi direttamente o indirettamente per una causa attraverso il suo lavoro.

Sotto tiro

Sotto tiro. Un film diretto da Roger Spottiswoode, che fu montatore di Sam Peckinpah e che raggiunse il suo apice come regista con questo film del 1983.

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Poster di Under Fire (Roger Spottiswoode, 1983)

Si svolge in un contesto storico reale, gli ultimi giorni del regime dittatoriale di Anastasio Somoza (figlio) in Nicaragua e l’apice della rivoluzione sandinista, che fu un’altra delle tante macchie nere degli Stati Uniti e dei loro servizi segreti (CIA), partecipando alla proliferazione di colpi di stato e dittature in tutta l’America Latina durante il secolo scorso. Il film non si sottrae mai a questo aspetto, essendo considerato uno dei film politici più coraggiosi degli anni ’80, con il permesso dell’enorme Desaparecido (Costa-Gavras, 1982).

Tre giornalisti americani si incontrano nuovamente alla ricerca di notizie. Da un lato, Russell Price (Nick Nolte), un fotoreporter ossessivo e pieno di rischi, che ha già avuto esperienza in diversi conflitti internazionali e che segue la famosa frase di Robert Capa “Se le tue foto non sono abbastanza buone, è perché non ti sei avvicinato abbastanza”.

Alex Grazier (Gene Hackman), un giornalista newyorkese veterano, dal carattere molto meno spregiudicato e un po’ esaurito dai suoi continui viaggi in giro per il mondo, è alle soglie di una nuova tappa professionale come conduttore di notizie presso una potente web televisiva americana.

E infine Claire (Joanna Cassidy), l’anello di congiunzione tra i due, una reporter coraggiosa, impegnata con Grazier, ma che finirà per accompagnare Price nel suo particolare e redentivo viaggio che li porterà a coinvolgersi direttamente con la causa rivoluzionaria accettando la preparazione di una fotografia falsa che cambierà tutto nel conflitto nicaraguense.

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Nick Nolte e Joanna Cassidy sul set di Under the Fire

Prezzo Russell

Russell Price arriva a un punto del film in cui sente di doversi schierare, disgustato da ciò che vede intorno a sé e dall’infamia con cui l’Occidente permea e condiziona la situazione. Ottimamente interpretato il personaggio di Oates (Ed Harris), un mercenario al soldo della CIA con la missione di influenzare i conflitti internazionali nell’interesse dell’amministrazione statunitense, e la non meno oscura e complessa spia francese Marcel Jazy (Jean-Louis Trintignant) che sembra agire su più fronti man mano che la marea degli eventi cambia.

A Price si presenta l’opportunità di fotografare il leader della rivoluzione, Rafael, un personaggio di fantasia che potrebbe essere ispirato all’ex leader sandinista Daniel Ortega Saavedra. Ma quale sarà la sua sorpresa quando, dopo essere stato fatto prigioniero con Claire dai soldati rivoluzionari e portato nel luogo nascosto dove si nascondono le milizie, scoprirà che Rafael è stato ucciso in una battaglia con le truppe dell’esercito nicaraguense e il suo corpo giace su un tavolo in una delle stanze del complesso, ancora nascosto al resto dei suoi compatrioti.

I leader rivoluzionari, al corrente dei fatti, propongono a Price di preparare una scena in cui il leader morto appaia vivo e di scattare una fotografia che serva a mettere a tacere le voci sulla sua morte e a riattivare una rivoluzione che non è al meglio. Dopo aver discusso con Claire sulla loro professione e sul loro ruolo di giornalisti in tanti conflitti, Price accetta infine di scattare la fotografia che finirà per ravvivare le speranze degli oppositori del regime di Somoza, e l’immagine diventa la nuova icona della rivoluzione.

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Gene Hackman in una foto di Under the Fire

Il conflitto in Nicaragua

Ma la storia di Bajo el fuego non si ferma qui, perché dopo la foto del leader Rafael c’è una seconda trama che esalterà ulteriormente il ruolo decisivo della fotografia nella risoluzione del conflitto nicaraguense. Dopo che la foto scattata da Price è stata riportata dai media internazionali. Alex Grazier, oggi conduttore di un telegiornale a New York, decise di tornare in Nicaragua sotto l’egida della stessa emittente televisiva in cui lavorava, con l’intenzione di ottenere un’intervista esclusiva con il leader sandinista, rivolgendosi all’autore della fotografia e amico Russell Price.

Price, dapprima incapace di dirgli la verità, continua a mentire finché, insieme a Claire, decide di rivelare che il leader sandinista è morto e che la fotografia è stata inscenata. Grazier è furioso, ma alla fine decide di chiedere un favore per l’accaduto e chiede a Price di aiutarlo a rintracciare la spia francese Marcel Jazy, poiché non vuole tornare negli Stati Uniti a mani vuote e senza un colloquio.

Price accetta e insieme intraprendono un viaggio in auto nel mezzo di uno scenario chiaramente bellico, in cui la rivoluzione sandinista sta prendendo sempre più posizione, provocando nervosismo ed eccessi da parte delle forze filogovernative. Ed è proprio a un posto di blocco dell’esercito nicaraguense che Alex Grazier viene ucciso a bruciapelo da uno dei soldati del posto di blocco, mentre Price, impotente a impedirlo, assiste alla scena attraverso la sua macchina fotografica, riuscendo a sequenziare l’omicidio di Grazier in una raffica di scatti.

Scena da Under Fire

La fine di un conflitto

Infine, la diffusione internazionale delle immagini della morte di un giornalista occidentale provocherà, secondo la trama del film, un netto cambiamento nella posizione degli Stati Uniti nel conflitto nicaraguense. Il trionfo della rivoluzione sandinista e la caduta del dittatore Somoza, che viene finalmente esiliato, con il finanziamento del governo statunitense, in Paraguay, sono visti come inevitabili. Lì, un anno dopo, morirà in seguito a un’imboscata tesa da un commando sandinista in quella che è nota come Operazione Rettile.

(A proposito, non voglio chiudere questo capitolo dedicato a Under Fire senza citare la sua spettacolare colonna sonora, firmata da Jerry Goldsmith, con il grande Pat Metheny alla chitarra. Alla fine del post trovate un paio di brani tratti da questa colonna sonora, eseguiti dalla Filarmonica della Città di Praga).

Bajo el fuego è disponibile sulla piattaforma Filmin.

L’occhio del pubblico. Il famoso Weegee

Un’altra proposta molto interessante è The Public Eye (Howard Franklin 1992) con protagonista un incommensurabile Joe Pesci, che all’epoca ci regalò alcune delle sue migliori interpretazioni in film come Uno di noi (Martin Scorsese 1991), per il quale vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista. O Casino (Martin Scorsese 1995), un altro dei miei film preferiti, in cui diede vita a uno dei gangster più cinici e selvaggi della storia del cinema: Nicky Santoro.

Ma in The Public Eye, Pesci interpreta Leon “Bernzy” Bernstein, un personaggio che, pur essendo di fantasia, è chiaramente ispirato alla vita e al lavoro di uno dei fotografi documentaristi più particolari della storia della fotografia, autore di alcune delle immagini più scioccanti e conosciute degli eventi della turbolenta New York della metà del XX secolo.

Stiamo parlando di Arthur Fellig, meglio conosciuto come Weegee. In effetti, gran parte del materiale fotografico del film proviene dal lavoro originale di Weegee e, senza dubbio, la scelta di Pesci non poteva essere più appropriata, poiché la somiglianza fisica tra i due è sorprendente. La sua interpretazione è così brillante che in alcuni momenti si arriva a pensare che sia la reincarnazione di Weegee stesso.

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Locandina del film The Public Eye

Classico film noir

Sebbene il film abbia una trama apparentemente fittizia in un formato da film noir classico accuratamente realizzato, vi consiglio di immergervi nella storia e nelle immagini di Weegee prima di guardarlo. Questo vi farà apprezzare ancora di più il film, perché molte delle eccentricità del personaggio e del suo particolare modus operandi come fotografo sono tratte dalla vita reale di Weegee, che si dice non si facesse scrupoli ad alterare la scena di un crimine se non era adatta all’inquadratura.

Weegee nasce in Ucraina nel 1899 con il nome di Usher Fellig, poi cambiato in Arthur Fellig, dopo essere emigrato con la famiglia negli Stati Uniti a soli 10 anni ed essersi stabilito a New York. Dopo un’infanzia e un’adolescenza difficili, in cui fu costretto ad abbandonare gli studi di base per lavorare e a vivere addirittura come un povero, nel 1918 iniziò a fotografare le strade di New York e, pur non avendo alcuna formazione come fotografo, ottenne un lavoro come assistente in uno studio fotografico, per poi lavorare come fotografo per diverse agenzie.

Ma se c’era una cosa che Weegee aveva, a parte la sua mancanza di remore nel far scattare la macchina fotografica e il flash, in qualsiasi situazione, anche all’interno di un cinema buio per immortalare una coppia di innamorati che si baciava tra le poltrone, era la sua capacità di vendersi e promuoversi, arrivando a firmare le sue fotografie con un nome per nulla modesto, la fotografia del famoso Weegee.

La vita notturna di New York

Nel 1935, Weegee si mette in proprio come fotografo freelance e comincia a esplorare la vita notturna di New York, carico di una ingombrante Speed Graphic 4×5. La macchina fotografica per eccellenza della stampa newyorkese dell’epoca, a cui va aggiunto il flash, la cui lampadina doveva essere cambiata dopo ogni scatto.

Ma se c’era una cosa che Weegee aveva, a parte la sua mancanza di remore a scattare con la sua macchina fotografica anche all’interno di un cinema buio per immortalare una coppia di innamorati che si baciava tra le poltrone, era la sua capacità di vendersi e promuoversi, arrivando a firmare le sue fotografie con un’immagine di Weegee senza pretese. Era la sua capacità di vendere e promuovere se stesso, arrivando persino a firmare le sue fotografie con una foto, dal nome per nulla modesto, del famoso Weegee.

Infatti, la sua reputazione di fotografo e la sua capacità di stringere contatti e amicizie interessate erano tali che nel 1938 ottenne un permesso speciale per installare una radio nella sua auto direttamente collegata alla frequenza su cui operava la polizia di New York, arrivando sulla scena del crimine anche prima di qualsiasi altro agente e, naturalmente, di qualsiasi altro giornalista.

La teoria più diffusa sull’origine dello pseudonimo Weegee è quella che fa riferimento alla sua somiglianza fonetica con la parola tavola ouija, in relazione a questa capacità di arrivare primo su tutti i palcoscenici. È proprio questa peculiarità del suo modo di lavorare che dà origine a una delle scene più empatiche con l’alter ego di Weegee, interpretato da Joe Pesci, quando il suo mentore e amico gli chiede come spegnere la “maledetta” autoradio e lui risponde, con un gesto angosciato, che non c’è modo di staccarla.

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Foto a sinistra: ritratto di Weegee. Foto a destra: Joe Pesci nei panni del grande Bernzy.

Il primo a realizzare le immagini

Ma Weegee non era solo in grado di arrivare ovunque prima di chiunque altro. Era anche sempre il primo a far pervenire le sue immagini esclusive ai giornali prima che questi chiudessero l’edizione del giorno successivo e mettessero in stampa le macchine. Lasciando in disparte gli altri colleghi, per i quali era impossibile competere con un tale dono di “ubiquità”.

Weegee prese l’idea di trasformare la sua auto in una casa propria a tal punto da avere nel bagagliaio del veicolo un completo laboratorio chimico fotografico, con il quale non esitava a nascondersi nei vicoli più bui di New York per sviluppare e stampare le fotografie scattate pochi minuti prima, consegnando addirittura alcune di queste immagini al giornale, non solo “fresche”, ma completamente bagnate.

Sebbene molti abbiano liquidato il lavoro di Weegee come sensazionalistico, nessuno può negare che egli sia riuscito a imprimere alle sue immagini un’impronta particolare, proprio grazie all’uso di potenti luci flash e al contrasto tra luci e ombre nelle sue immagini, che accentuavano ulteriormente la drammaticità del soggetto.

Ma etichettare Weegee solo come fotografo di eventi sarebbe un eufemismo per comprendere la portata del suo lavoro. Weegee è stato anche un formidabile cronista visivo della città che non dorme mai. Le sue fotografie, al di là dei motivi più luridi e violenti, sono popolate da un innumerevole catalogo di personaggi tratti da quell’habitat notturno, grottesco e persino surreale che era la “mean streets” della New York degli anni Trenta e Quaranta.

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New York fotografata da Weegee. © Weegee

L’occhio del pubblico

Tutti questi aspetti del personaggio vengono colti in Public Eye, attraverso Bernzy, la ricostruzione di Weegee interpretata magistralmente da Joe Pesci nel film.

C’è una sottotrama che cattura l’ossessione del fotografo per la notorietà e il riconoscimento pubblico, quando vediamo il personaggio costruire uno strano aggeggio a rotelle che poi incorpora nella base di una piccola macchina fotografica. Sul momento non si capisce bene il destino di un simile congegno meccanico, ma in seguito, nonostante l’implausibilità (o meno) della risoluzione dell’enigma, si rimane affascinati dal momento.

Bernzy è riuscito a scoprire il luogo di un massacro tra famiglie mafiose rivali di New York, dandogli l’opportunità non solo di fotografare la scena di un crimine spettacolare, ma anche di catturare con la sua macchina fotografica il momento esatto in cui viene eseguito. Ed è nel caos e nella violenza della sparatoria che Bernzy, che per i minuti precedenti è rimasto nascosto senza che nessuno lo individuasse, emerge dall’ombra con la sua Speed Graphic e il suo potente flash e inizia la sua particolare sparatoria fotografica, tra proiettili, schegge e corpi che volano in aria, lanciati dalla potenza del fuoco della mitragliatrice.

E nel bel mezzo di una tale catastrofe, ha ancora il sangue freddo di attivare il meccanismo creato per l’occasione, ed è allora che vediamo come la piccola macchina fotografica dotata di ruote attraversa il pavimento della stanza in mezzo al caos, e dopo un intervallo di tempo, il timer su di essa attiva l’otturatore e cattura l’istantanea di Bernzy stesso che fotografa il massacro. Senza dubbio il selfie più bizzarro della storia del cinema.

L’occhio pubblico è disponibile su Google Play.

Ritratti di un’ossessione. Prima della “vita è un sogno” dei social network

Ci sono film che all’epoca passavano un po’ inosservati, ma che col tempo hanno acquisito una certa rilevanza. Più che per la qualità dei film in sé, è per il fatto che, rivisti ora nell’attuale contesto culturale e sociale, non si può fare a meno di vedere in essi una certa anticipazione di ciò che è avvenuto anni dopo la loro produzione.

E non stiamo parlando di un film lontanissimo nel tempo, perché Ritratti di un’ossessione (Mark Romanek) è uscito nel 2002, pochi anni prima dell’irruzione di Facebook che ha portato con sé l’era dei social network e di quello che ti succederà morena. E il fatto è che, anche se a molti può sembrare incredibile, nel 2002 non stavamo ancora “vendendo” le nostre vite (e i nostri dati) in modo compulsivo attraverso Internet, e la fotografia analogica regnava ancora, anche se le restava poco tempo per essere detronizzata dal digitale, che si stava avvicinando alla velocità di un obice.

Nei primi anni di questo XXI secolo, portavamo ancora le nostre foto domestiche a sviluppare in un negozio specializzato o nei servizi di sviluppo in un’ora (ricordate?). Infatti, il titolo originale di questo film è One Hour Photo, molto meno sensazionalistico del titolo inglese.

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Poster per Ritratti di un’ossessione

Ritratti di un’ossessione

In Ritratti di un’ossessione, Robin Williams, che all’epoca voleva dare una svolta al suo ruolo tipico (e faticosamente conquistato) di attore comico, interpreta una coppia di psicopatici al cinema (ripeterà l’esperienza lo stesso anno nell’interessante Insomnia di Christopher Nolan). Interpreta Seymour “Sy” Parris, un solitario e introverso commesso di un negozio di prodotti in via di sviluppo in un supermercato della periferia di Los Angeles, che sviluppa un rapporto più stretto con alcuni clienti, gli Yorkin. Una tipica famiglia borghese americana, giovane e moderna, che sembra trasudare felicità e perfezione da ogni lato.

Questo rapporto, che di norma non va mai oltre la postazione da cui Sy si occupa scrupolosamente dei suoi clienti, finisce per diventare un’ossessione per lui, che vede nella famiglia Yorkin una perfezione e uno status sociale a cui desidera indubbiamente aspirare e far parte.

Ma la cosa interessante di Ritratti di un’ossessione è che questa percezione di felicità e di buoni sentimenti arriva a Seymour non soprattutto nei rapporti con gli Yorkin, che inizialmente sono affabili ma non vanno oltre i limiti della cordialità, ma attraverso le fotografie che loro, e soprattutto Jake, il più giovane della famiglia, portano a sviluppare da anni nello stabilimento dove lavora il nostro protagonista.

Ed è che il “buon” Seymour, non solo si limita a curiosare nelle immagini altrui, ma, nel caso dello Yorkin, non esita a prendere due copie di ogni fotografia, una da consegnare ai suoi clienti e un’altra per sé.

Seymour e gli Yorkin

La fissazione di Seymour per gli Yorkin cresce, arrivando a un punto in cui non si accontenta più di invadere la loro privacy con le sue fotografie, ma sente anche il desiderio di far parte in qualche modo del loro ecosistema incontaminato e perfetto. È curioso il modo in cui il film risolve questo aspetto, quando gli Yorkin portano le foto a sviluppare senza aver terminato completamente il rullino e Seymour non esita a fotografare se stesso fino a quando il rullino non è terminato e ad aggiungere queste foto alle copie cartacee consegnate, come se fosse un altro membro della famiglia fotografata. Questo non passa inosservato agli Yorkin, che iniziano a empatizzare con Sy, per il quale iniziano a provare una certa pietà nel vederlo come una persona triste e sola.

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Robin Williams e Connie Nielsen in una foto di Ritratti di un’ossessione.

Ma le cose si complicano, se non lo erano già abbastanza, quando Sy scopre, durante uno dei suoi precisi processi di sviluppo (a volte sembra più uno scienziato in guanti e camice che un impiegato del supermercato), alcune fotografie che rivelano la relazione che William, il presunto padre perfetto degli Yorkin, ha con la sua amante. Un atto che egli interpreta come un tradimento personale, poiché nel suo complesso stato mentale Sy si sente membro indiscusso della sua particolare “famiglia adottiva”.

Uno psicopatico fuori controllo

È da qui, purtroppo, che la trama del film si allontana dall’interessante punto di partenza per trasformarsi nella prevedibile storia di uno psicopatico fuori controllo, con tanto di trauma infantile a giustificare tutto. Il film riesce a mantenere l’interesse grazie alla sua accurata finitura visiva e, soprattutto, all’interpretazione contenuta e inquietante di Robin Williams.

Soluzione della trama a parte, Ritratti di un’ossessione offre un’interessante riflessione premonitrice sulla fotografia nei tempi in cui viviamo oggi.

Soluzione della trama a parte, Ritratti di un’ossessione offre un’interessante riflessione premonitrice sulla fotografia nei tempi in cui viviamo oggi. E il fatto è che questa proliferazione di vite perfette, di selfie pieni di felicità e di foto profilo in cui non si appare mai male fa parte, a 18 anni dall’uscita del film, di tutto ciò che digeriamo quotidianamente attraverso le immagini pubblicate sui social network. Con la differenza che ora non c’è più bisogno di essere un voyeur che spia di nascosto la vita degli altri attraverso le loro fotografie, perché siamo arrivati a normalizzare il fatto che siamo noi stessi a pubblicare e “vendere” la nostra presunta “vita perfetta” su Instagram o Facebook. Rendendo partecipi della nostra intimità (reale e prefabbricata) non solo i nostri conoscenti, ma anche persone con cui non abbiamo mai avuto a che fare nella vita al di là di uno schermo.

Il mondo dei social network

Ma proprio come Sy scopre che la famiglia di cui si sente parte non è così perfetta come sembra, dare per scontato che questo mondo soggettivo nato e alimentato sui social network sia un riflesso affidabile della realtà può condurci a una percezione e a un’interpretazione errata. Non solo della vita degli altri, ma soprattutto di noi stessi, se finiamo per credere di essere l’avatar dietro cui ci nascondiamo, o crediamo di nasconderci.

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Robin Williams in Ritratti di un’ossessione

È inquietante quanto, in una delle scene migliori di Ritratti di un’ossessione, da un mondo fotografico ancora analogico, riesca a prevedere alcuni aspetti della nostra attuale cultura visiva (e sociale). Soprattutto quando ci mostra Sy a casa, da solo, seduto al centro di una stanza che costituisce il suo particolare feed, con centinaia e centinaia di immagini del suo idolatrato Yorkin che tappezzano una parete come se fosse la griglia perfetta di Instagram.

Ritratti di un’ossessione è disponibile su Apple TV.

@bernatgu e la fotografia vista dal cinema.

Un paio di musiche per questo post:

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