La fotografia ai tempi dei #fotografi@ (prima parte)

Per molti di noi che hanno ancora toccato la fotografia analogica, l’elaborazione di tutto ciò che ha comportato il convulso cammino verso l’era digitale, estenuante sotto molti aspetti, ha lasciato un sapore un po’ agrodolce in bocca.

Dolce, senza dubbio, per tutte le possibilità creative che la tecnologia ha portato con sé, ma anche amara, perché, come ha definito cinque anni fa il fotografo Siqui Sánchez in quel leggendario piss-up, Apoteosi della Merdografia, quando un’attività artigianale (perché è questo che noi fotografi eravamo: artigiani dell’immagine) diventa un prodotto da fast food, l’essenza di quell’atto artigianale finisce per essere inghiottita dalla banalizzazione e dall’assenza di quella complessità intellettuale nel discorso, necessaria in qualsiasi processo creativo o artistico.

Harvey Keitel in una delle scene iconiche di Smoke (Wayne Wang 1995)

La fotografia non è morta, si è evoluta

La fotografia non è morta, si è evoluta, e in che modo, ma dobbiamo riconoscere che da quando si è “democratizzata”, il suo uso nelle reti sociali ha qualcosa di, e cito ancora Siqui, “patologia comportamentale”.

E ora arriva l’avvertimento per i navigatori. La fotografia mi ha rivelato uno dei pilastri delle mie convinzioni, e cioè che l’oggettività non esiste, anche se fingere o aspirare ad essa sono atteggiamenti molto lodevoli. Sono uno di quelli che pensa che l’atto fotografico sia un atto totalmente soggettivo, e lo stesso concetto è applicabile alla mia percezione delle cose, anche quando non passano attraverso una macchina fotografica. Pertanto, ciò che scrivo qui non è altro che il frutto dei miei filtri di Instagram.

La fotografia mi ha rivelato uno dei pilastri delle mie convinzioni, e cioè che l’obiettività non esiste, anche se pretenderla o aspirarla è un atteggiamento molto lodevole.

30 autunni a fotografare

Nel mio caso, gli anni dell’analogico e quelli (esclusivamente) del digitale sono ormai quasi alla pari, e insieme assommano a 30 autunni. Non sono uno di quelli che sente la mancanza dell’analogico, almeno per quanto riguarda i processi di produzione delle immagini, perché sarebbe assurdo negare tutto ciò che la conversione al digitale mi ha portato, dal punto di vista creativo e soprattutto professionale, da quando mi ci sono avvicinato nel 1998, non solo nel campo della fotografia, ma anche in quello del design (la mia altra passione).

Ma riconosco, da buon nostalgico esperto, che a volte, quando chiudo gli occhi e mi trasporto mentalmente ai miei primi anni in bianco e nero e rivivo le sensazioni di quell’epoca fotografica, provo uno stato d’animo di compiacimento vicino a un’overdose di Calm, quell’app che aspira a sostituire il consumo di valeriana.

Suppongo che, sebbene non mi manchino i processi tecnici, mi manchi l’essenza dell’atto fotografico dell’epoca, quella dell’osservatore che porta con sé una macchina fotografica e cattura frammenti interessati di ciò che vede, con cui creare un discorso visivo che, per molti versi, nel mio caso, era più vicino al “mondo interiore” che a qualsiasi interesse nel mostrare il mondo esterno da un punto di vista realistico.

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Selfie tra le stelle (frammento). © Bernat Gutiérrez 2018

Perché, cari millenials. C’è stato un tempo non molto lontano, in una galassia non così lontana, in cui i megapixel non esistevano nelle nostre vite e Photoshop (questo è esistito, non sono nemmeno così vecchio) era qualcosa che quattro luminari maneggiavano e che suonava come l’onomatopea di una pancia che galleggia in una piscina piena d’acqua.

Un tempo la fotografia non era diversa da quella attuale

La fotografia non era molto diversa da quella di oggi, solo che allora, invece di catturare l’immagine attraverso i sensori, lo facevamo con rotoli di pellicola fotosensibile. Niente schermi LCD o fotocamere mirrorless silenziose; vedere la foto all’istante era fantascienza (tranne che per i ragazzi della Polaroid). E giuro che ho persino svegliato mio padre dal suo pisolino, in modalità infarto, con il click-clack di una fotocamera di medio formato.

Perché, cari millenials, c’è stato un tempo non molto lontano, in una galassia non così lontana, in cui i megapixel non esistevano nelle nostre vite e Photoshop (esisteva, anch’io non sono così vecchio) era una cosa che maneggiavano quattro luminari e suonava come l’onomatopea di una pancia che galleggia in una piscina piena d’acqua.

Lo sviluppo, sì, si è evoluto

Lo sviluppo, ora si è evoluto (porca vacca!). All’epoca, il processo per ottenere un’immagine dopo averla catturata con la macchina fotografica era qualcosa di a dir poco umido e a metà strada tra il buio assoluto e la luce rossa di un bordello nell’immaginario cinematografico.

Per prima cosa, la rimozione della pellicola da una bobina metallica da 35 mm e il suo inserimento nella spirale della vasca di sviluppo del negativo aveva il suo armamentario, in quanto poteva essere effettuata solo nel buio più totale (il negativo era sensibile a tutti i tipi di luce), con una certa destrezza nelle mani e utilizzando la tecnologia più recente dell’epoca, come un apribottiglie.

Fortunatamente, una volta caricato il serbatoio a tenuta stagna, si poteva continuare il processo con le luci accese, anche se so di alcuni che all’inizio non hanno capito bene la metodologia e hanno continuato con le luci spente fino a prendere il negativo sviluppato… “Sono stati 20 minuti di agonia”, mi ha confessato uno di loro.

Funny Face (Stanley Donen 1957)

Nulla di più e nulla di meno di un processo chimico

Sì, il processo era chimico e consisteva in una combinazione di momenti in cui il supporto fotografico entrava in contatto con l’acqua e con piccole dosi di 4 prodotti che abbiamo chiamato sviluppatore, bagno di arresto, fissatore e bagnante.

Ci sentivamo scienziati con le nostre provette, le nostre cuvette con le pinzette, i nostri timer per controllare il tempo di utilizzo di ogni liquido, i nostri camici bianchi… Beh, il camice bianco non era necessario, ma ammetto che dava una certa aria di rispettabilità, anche se il luogo di lavoro ideale, quando non si disponeva di infrastrutture, era il bagno di casa, con la finestra ricoperta di cartone nero e lo spazio illuminato di un rosso sgargiante, a cui la carta fotografica (in bianco e nero) non era sensibile durante il processo di stampa.

Vedere per la prima volta come una foto emergeva, come per magia, su una carta immersa in un liquido, ha stupito più di uno, provocando una sindrome di Stendhal, anche se in molti casi si è scoperto che avevano precedentemente aspirato, con forza, la bottiglia del bagno di arresto concentrato (chi di voi lo conosce sa di cosa sto parlando). Ridete di Lightroom ora.

Vedere per la prima volta come una foto sia emersa, come per magia, su un pezzo di carta immerso in un liquido, ha stupito più di una persona, provocando una sindrome di Stendhal.

L’evoluzione della fotografia in poco più di 20 anni

A parte le smancerie xenni, e senza entrare (per ora) nei dettagli di come si facevano queste cose non molto tempo fa, l’evoluzione della fotografia a livello tecnologico, in poco più di 20 anni, è davvero vertiginosa se la confrontiamo con l’evoluzione durante i suoi 2 secoli di vita, anno più anno meno.

Stiamo vivendo una vera e propria “furia di immagini”, come ha ben descritto il grande Joan Fontcuberta, che tra l’altro è il vero creatore della parola fotografi@, anche se mi sono permesso di aggiungervi l’hashtag.

Molti professionisti della fotografia si sono adattati a questi cambiamenti, alcuni a malincuore e altri, come nel mio caso, perché siamo delle vere e proprie spugne desiderose di continuare a evolvere. Viviamo questa furia con sensazioni contraddittorie.

Da un lato, con l’aspettativa che i progressi tecnologici abbiano contribuito a questa sorta di infinito creativo che ci è stato presentato come un accumulo quasi infinito di possibilità professionali e artistiche. E dall’altro lato, con la sensazione che questa massificazione delle immagini e di chi le cattura/produce/crea, insieme a un mercato scatenato di prodotti fotografici i cui progressi sono già al limite dell’ossessivo (per vedere chi riesce a realizzare l’apparecchio più enorme), non sia altro che il preludio di una bolla che finirà, in verità, per uccidere la fotografia di successo.

L’educazione dell’occhio fotografico

Una cosa è essere fotografi e un’altra è educare l’occhio fotografico. La fotografia non è mai stata semplicemente una questione di premere un pulsante, né è oggi appannaggio esclusivo di reti come Instagram o di Photoshop come se non ci fosse un domani. La fotografia va oltre gli aspetti tecnici e per comprenderla nella sua piena dimensione non possiamo ignorare gli aspetti creativi, sociali, culturali e, tanto meno, quelli intrinseci alla condizione del fotografo del XXI secolo, non solo come osservatore, ma anche come generatore, creatore, produttore e manipolatore di immagini.

Smoke (Wayne Wang 1995)

Arcadina mi ha dato, attraverso il suo blog, l’opportunità di condividere con voi non solo esperienze e prospettive, ma anche un dibattito necessario, non privo di spigoli. Sul passato, sul presente e sul futuro di uno dei campi creativi più affascinanti che esistano, la cui presenza e influenza nella società va ben oltre lo schermo di uno smartphone.

Per continuare…

@bernatgu

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